Roberto, la TDH e i campi del nord est

Roberto Mastrotto preparazione Lavaredo Ultra Trail

29 agosto 2023, a cura di Filippo Caon

Il grano è ormai alto ben oltre i due metri e copre il profilo delle montagne all’orizzonte. La strada taglia in due i campi di sórgo, che buttano una fresca brezza umida che risale i fossi e si scontra con l’asfalto ancora caldo. Pedalo verso ovest mentre il tramonto incendia l’erba a bordo strada di un giallo nitido e contrastato come succede dopo un temporale estivo. I campi di grano si alternano a quelli lasciati incolti, aprendo improvvisamente la vista sul fondo della pianura. Le Piccole Dolomiti, a nord, chiudono l’orizzonte, piatto e infinito. In prima fila, il Summano apre le Prealpi come la prua di una nave, con la sua cima inconfondibile e smussata. Seguendone il profilo, dalla cima scende a sinistra un pendio frastagliato e boscoso fino a una selletta, da cui sul lato opposto risale lo spallone del Monte Novegno. Dopo il Novegno, seguendo ancora il profilo delle montagne verso ovest, si incontrano prima il Pasubio, poi il Sengio Alto, e in fine il Carega, la più alta delle Piccole Dolomiti, che chiude l’ampio anfiteatro dell’Alta Valle dell’Agno.

Sul filo di quelle montagne, che chiudono a nord la provincia di Vicenza dividendola dal Trentino, si snoda uno dei più storici e iconici percorsi dell’ultrarunning italiano: una linea di 80 chilometri, divisa in due da una galleria lunga qualche metro e aperta a colpi di dinamite un secolo fa, e poi intitolata a un generale bolognese di cui porta ancora il nome altisonante: d’Havet.

La storia del trail running italiano (il termine ultrarunning, al tempo, non era ancora molto usato nel nostro paese) passa anche per quella galleria: una sera di luglio del 2010, uno sparuto gruppo di corridori attaccò il Monte Summano dal sentiero dei Girolimini, con l’idea di fermarsi soltanto una volta raggiunto l’altro capo di quella catena. Al tempo il trail era molto diverso da oggi, in Italia esisteva una vera e propria scena soltanto da pochi anni, le persone si conoscevano tutte, e più che le gare, la domenica si correvano i TA, i trail autogestiti: si correva tutti insieme allo stesso ritmo: si indossava quel che capitava e si condividevano birre alla fine: la corsa era un gesto quasi accennato, per lo più si camminava – ciò che oggi sembra così puro e ricercato, in quegli anni era normale. Lo chiamavano “spirito trail”.

Le gare lunghe, e chi le correva, erano tanto rari quanto oggi lo è il contrario. LUT era lunga ancora 90 chilometri, e chi tornava da Chamonix, a fine agosto, dopo aver chiuso il giretto attorno al Monte Bianco, era visto come un alieno. In pochi anni Trans d’Havet diventò una delle gare più importanti e partecipate in Italia; d’altronde a Vicenza correvano tutti, e la scena locale era una delle più vitali del paese. Parlare di un atleta vicentino significa parlare anche di questa storia, e del profilo di quelle montagne, umili e inconfondibili.

Piccole Dolomiti

TDH 2018: GLI INIZI

È una notte di luglio come una di queste, di cinque anni fa. La linea rossa della Trans d’Havet è illuminata a giorno dai fulmini e dalle frontali; la grandine cade copiosamente e noi corridori avanziamo lentamente sotto ai boschi di castagni del basso Novegno e del monte Alba. È la mia prima gara, la mia prima notte fuori, la mia prima ultra: battesimo di fuoco. Mi trovo nelle prime retrovie, protetto dai boschi, e del percorso, o almeno dei primi 50 chilometri, conosco già ogni sasso. Non ho mai corso una gara ma mi alleno su queste montagne ormai da diversi anni. Penso ai chilometri successivi, e penso alla salita che da Passo Xomo porta al Rifugio Papa, e a quelle 52 gallerie scavate sulla roccia e rubate alle pareti a colpi di piccone, pareti aree e scoperte, ora nel cuore della tempesta.

Lì davanti, proprio sulle Gallerie, da solo, a sbacchettare sul calcare, in mezzo ai fulmini, c’è un ragazzo di Chiampo. È anche lui della zona e non corre da molto, ma in poco tempo si è già ritagliato un nome in provincia. Si chiama Roberto Mastrotto, e da quell’anno corre anche per un’azienda. A Vicenza, in realtà, per avere nomea di grande atleta è sufficiente bere poca birra, o quantomeno meno birra degli altri – in pochi anni la scena del trail è cresciuta e cambiata, ma qui ha mantenuto ancora il taglio conviviale e domenicale, e la differenza tra atleta professionista e local legend non è ancora molto chiara a molti. Quel giorno, Roberto arriva a Valdagno a orario colazione, stampando il secondo miglior tempo della gara dopo quello di Kilian Jornet e di Louis Alberto Hernandez del 2013.

Per un vicentino e per i vicentini, vincere TDH vale più di una top ten ai mondiali: articoli sul giornale, annunci sulla TV locale, fiori e abbracci del sindaco. È allo stesso tempo un sentimento nobile e kitsch: l’attaccamento al territorio, il supporto per la scena locale, ma allo stesso tempo un’incapacità a guardare oltre i propri confini. Dopo una vittoria a Trans d’Havet, altri atleti si sarebbero limitati a ripetere le stesse quattro o cinque gare locali, magari varcando saltuariamente i confini regionali per tentare qualche rapida incursione nelle province limitrofe. Roberto invece, dopo TDH, va in cerca di cose più difficili, e a fine agosto si presenta sulla linea di partenza dell’Ultra-Trail du Mont Blanc. Chiude al diciannovesimo posto, un risultato che per molti varrebbe una carriera. Poi, scompare.

Passa l’inverno successivo in ospedale: infezione da stafilococco. Resta ricoverato per due mesi in malattie infettive e tropicali, i medici temono che l’infezione raggiunga la valvola cardiaca, gli dicono che se va bene riprenderà a camminare ma può dimenticarsi della corsa. Le cose vanno meglio di così, e tornato a casa sale sui rulli e si mette a pedalare: fa qualche chilometro, poi crolla, ma è qualcosa.

A giugno, meno di quattro mesi dopo essere uscito dall’ospedale, mi trovo in un bosco sopra a Trento per una corsa tra amici, corriamo 50 chilometri e Roberto è presente. È stata una cazzata – mi confida qualche anno dopo – ma ne avevo bisogno ed è stato un momento di liberazione. Poi si infortuna ancora: l’inverno successivo si procura una frattura da stress ed è costretto di nuovo a stare fermo, va in bicicletta e corre poche gare, poi arriva il Covid.

Nella scena vicentina, che forse conta poco ma se ci abiti conta pur qualcosa, Roberto è ancora l’atleta a cui tutti guardano, ma a fine gara, nella palestra di turno, davanti a un piatto di pasta con le gambe ancora sporche di fango, capita di sentire “E Mastrotto?”, “Ritirà”.

Nell’ambiente veneto l’ammirazione degli amatori per alcuni atleti è tale da farli empatizzare con le loro sconfitte. Magari senza nemmeno conoscerli, se non di vista o per nome. In Trentino, dove mi sono trasferito da qualche anno, le persone sono più schive, si allenano di più, corrono di più, il livello medio forse è leggermente più alto, ma nessuno si interessa granché a quello che gli accade attorno. La scena del trail nel vicentino, in questo senso, è ancora calorosa, e per quanto in certi casi sembri ottusa e un tantino retrò, riesce ad essere estremamente stimolante, soprattutto quando il suo beniamino si trova col culo a terra e sgomita per rialzarsi.

Roberto Mastrotto

SERE DI LUGLIO

Ci troviamo a Costabissara. Lego la bicicletta a una rastrelliera e lo aspetto su una panchina della piazzetta di fronte alla villa. Arriva con la camicia ancora infilata nei pantaloni, le scarpe eleganti e gli occhiali civili; si cambia un po’ di fretta nel sedile del guidatore e iniziamo a correre. Ci ha passato la traccia Tommaso, a parte questo nessuno dei due sa dove dobbiamo andare. È la prima volta che corriamo assieme, e in realtà è la prima volta che mi trovo da solo con lui, al di fuori di un contesto sociale o di un evento. Mi ha sempre dato l’impressione di essere un professionista, e, a dire il vero, è l’impressione che tutti hanno di lui.

In effetti il suo approccio alla corsa è estremamente metodico: si allena da solo, legge articoli scientifici, passa ore a studiare i risultati degli altri e conosce il punteggio ITRA di qualsiasi concorrente che si trova accanto a lui su una linea di partenza – probabilmente sa pure il mio, e io d’altronde non lo so. Ma non è soltanto un nerd: Roby si allena anche un sacco.

Siamo tutti capaci a parlare di scarpe, abbigliamento, punteggi e gare, ma fino a prova contraria la corsa è uno sport, e gli sport sono tali perché ci si allena, altrimenti si chiamerebbero passatempi. Questa è la principale discriminante tra un influencer e un corridore: non i risultati, non le gare che hanno corso, non il fatto che vanno più o meno forte di qualcun altro, ma le ore passate ad allenarsi, e i chilometri fatti da soli, la sera, dopo lavoro. E Roby si allena tanto, fa tante ore e tanti chilometri, e forse ne fa anche di più dei risultati che riesce a ottenere. E questa dedizione, ossessiva e maniacale, forse un tantino da nerd e agli occhi di qualcuno un po’ sfigata, fa di lui un vero corridore.

Corriamo e mi parla della casa che sta ristrutturando e dei sentieri della Val Chiampo, del viaggio in California e di Canyons 100, la gara che è andato a fare con Alessio e Michele, sulle montagne di Auburn, California.

Chiacchieriamo e ci perdiamo, finiamo nel giardino di una casa, poi incontriamo Federica, un’altra ultrarunner della zona che vedo sì e no due volte l’anno, mentre porta a spasso il cane. Saliamo e scendiamo dalle colline, e dopo qualche chilometro di ciclabile rientriamo a Costabissara. Beviamo un paio di radler e restiamo a parlare per un tempo indefinito. Siamo grondi di sudore e la brezza estiva inizia a congelarci. Nel frattempo, il sole è tramontato e si è fatto buio. Attorno a noi sembrano avere tutti caldo mentre io inizio a tremare. Non abbiamo ancora cenato e non reggo molto le due radler. Penso al fatto che non correndo forte dovrei essere bravo a bere, invece sono una mezza sega in entrambi.

Roberto ha corso LUT da un paio di settimane, chiudendola all’ottavo posto e stampando il suo miglior personale. A fine agosto tornerà a Chamonix per provare un’altra volta il giro completo attorno al Monte Bianco. Gli chiedo se non si annoia, a correre sempre le stesse gare: LUT, UTMB. In realtà, ammette, un po’ sì: ha corso UTMB per la prima volta nel 2018; poi, nel 2019 ha avuto l’infezione e nel 2020 la gara è stata annullata. Così ci ha riprovato nel 2021, ritirandosi, ed è dovuto tornare nel 2022 per chiudere i conti.

“Tra una cosa e l’altra ci sono stato dietro cinque anni.”

“E allora perché ci torni ancora? Hai già chiuso la faccenda l’anno scorso, non è così?”

Ci pensa.

“Avrei potuto correrla meglio. Inoltre, nei prossimi anni riuscire a partecipare sarà sempre più difficile, così lo rifaccio, fintanto che ne ho l’opportunità. Poi basta.”

“Hai già in mente qualcosa per l’anno prossimo?”

“Sì: Leadville, Colorado.”

Gara storica, orizzonti lontani, una gara per chi vuole perdersi nel west, quello vero, delle miniere di acciaio e della corsa all’oro, una gara che sogni ad occhi aperti fissando il soffitto prima di spegnere la luce la sera.

Dice quel nome e poi fa una pausa. Beve l’ultimo sorso di radler, guarda verso l’altro, poi mi riguarda negli occhi e aggiunge:

“E poi, pensavo, quasi quasi la settimana prossima rifaccio TDH.”

Roberto Mastratto - TDH

© photo: Camilla Pizzini,  Federico Bruttomesso