Cerro Piergiorgio: un sogno verticale in Patagonia

Alcuni sogni si fanno largo nella mente e diventano progressivamente più vividi dentro di noi. Da diversi mesi sapevo che, insieme al CAI Eagle Team, sarei partito per la Patagonia. Emozione, paura e voglia di mettermi in gioco erano forti, ma la partenza sembrava lontana, e le incombenze quotidiane facevano apparire il viaggio come qualcosa di remoto.

Eppure, in pochissimo tempo, mi sono ritrovato imbarcato su un aereo con destinazione Patagonia, ai confini del mondo. Il carico di emozioni era intenso, sia perché ci trovavamo in un contesto che ti fa sentire davvero piccolo, sia perché i nostri sogni erano davvero grandi.

Qualche mese prima, con Matteo Della Bordella, Luca Schiera e Camilla Reggio, abbiamo condiviso il progetto di tentare la parete nord-ovest del Cerro Piergiorgio. L’idea era quella di completare la via Gringos Locos, opera visionaria di Maurizio Giordani e Luca Maspes del 1995, rimasta incompiuta per trent’anni.

Quando sono arrivato in Patagonia, sapevo che le probabilità di completare il progetto erano molto basse. È la mia prima spedizione alpinistica extraeuropea e, pur consapevole della mia inesperienza, ero motivato a puntare in alto. Sapevo che anche solo un buon tentativo sarebbe stato, per me, un incredibile successo.

Tutto questo era vero, ma solo in parte. Perché dentro di me ho sempre sperato che salire quella parete fosse possibile. Sono partito con la determinazione di farcela e con la consapevolezza che avrei dato il massimo per riuscirci.

 

PRIMI PASSI NELLA TERRA DEL VENTO

Ci stanziamo nel paese di El Chaltén. Il villaggio ha una dimensione turistica e la vita scorre lentamente. La Patagonia è una terra imprevedibile. Bisogna imparare a interpretare il meteo, che spesso ostacola la scalata. Spesso piove, il vento fa sentire la sua forza e le attività all’aperto sono fortemente limitate. Altri giorni accade che, nonostante il meteo sia discreto in paese, in montagna la situazione sia tutt’altro che favorevole per cimentarsi in grandi salite. Il brutto tempo resta spesso confinato alle zone montuose, e queste giornate possono essere sfruttate per scalare in paese o mantenersi in forma.

I giorni trascorsi mi hanno permesso di conoscere più a fondo i miei compagni di viaggio. Le spedizioni hanno questo incredibile effetto: permettono di scoprire il carattere più autentico delle persone, che spesso nei contesti più “sociali” resta celato.

Dopo pochi giorni, un piccolo spiraglio di sole accende il desiderio di esplorare queste terre. Io, Camilla Reggio e Luca Schiera ci dirigiamo verso les Aiguilles Guillaumet. Luca, purtroppo, dovrà abbandonarci poco dopo la partenza per un problema fisico. Questa prima uscita ci fa subito comprendere la maestosità di queste montagne, nonostante si tratti di una delle salite più veloci dal paese. In due giorni affrontiamo il versante est della montagna: carico di neve, ci facciamo faticosamente strada fino a cinquanta metri dalla vetta. A quel punto, intimoriti da alcune nuvole che minacciavano il brutto tempo, decidiamo di scendere e rientrare a valle.

 

PRIMA FINESTRA DI BEL TEMPO

A metà febbraio, si apre una prima finestra di bel tempo. Per una serie di coincidenze e infortuni, la cordata che tenterà la salita del Cerro Piergiorgio sarà composta da me, Matteo Della Bordella e Mirco Grasso.

Il campo base è posizionato a circa 20–25 km dalla strada, quindi il primo giorno è dedicato all’avvicinamento. A differenza di Matteo e Mirco, non avevo mai visto la parete dal vivo, solo in fotografia. Il Piergiorgio è l’ultima montagna che si intravede, e le pareti circostanti incutono già timore. Superato un costone, la montagna si presenta nella sua interezza davanti ai nostri occhi. È enorme. Ti senti schiacciato dalla grandezza, dalla compattezza e dalla maestosità della parete. Per quanto avessi provato a immaginarla, l’impatto visivo dal vivo è incredibile. In tutta la mia vita, non avevo mai visto nulla di simile.

In quel momento, i pensieri iniziano a divagare. Provo una paura “razionale”, quasi sovrastata dalla voglia di mettermi in gioco, di dare il massimo, e, se necessario, rinunciare, ma solo dopo essermi confrontato fino in fondo con la parete e con le mie capacità.

Per tre giorni scaliamo, guadagnando metro dopo metro. Fissiamo corde fisse ogni giorno e rientriamo alla base della parete ogni sera. Siamo in contatto via radio con il campo base: da lì ci seguono i fotografi e coordiniamo il drone durante la salita.

A prima vista, la parete sembra impossibile: una placca liscia di granito. Eppure, scalandola metro dopo metro, emergono le tacche che ci consentono di avanzare – talvolta in libera, altre con l’aiuto dei cliff.

Al termine della prima finestra di bel tempo, usciamo speranzosi. Abbiamo fissato 480 metri di corde fisse, tutte quelle a nostra disposizione. Sapevamo che, con le nostre capacità, saremmo potuti arrivare in cima, ma sarebbe servita anche una buona dose di fortuna affinché il meteo fosse dalla nostra parte.

 

SECONDA FINESTRA DI BEL TEMPO

Passano una decina di giorni prima che il meteo ci offra una nuova speranza. Su carta, questa seconda finestra sembra significativamente più favorevole. Così rientriamo nella valle del Piergiorgio, un po’ meno pesanti rispetto alla volta precedente.

Le incertezze aumentano quando ci rendiamo conto che le pareti sono completamente ricoperte di ghiaccio. Col passare della giornata iniziano a ripulirsi leggermente. Inoltre, il giorno successivo avremmo dovuto risalire le corde fisse per diverse ore prima di riprendere la scalata: tempo utile affinché la parete si pulisca ulteriormente.

In questa seconda occasione, l’approccio alla salita cambia: dobbiamo dormire in parete e ottimizzare i tempi. Il giorno dopo risaliamo le corde e iniziamo a scalare. Apro io il primo tiro impegnativo, che supero in poco tempo. Poi mi preparo per il secondo, ma ci accorgiamo che l’unico percorso possibile si è trasformato in una cascata d’acqua, a causa di un diedro ghiacciato sopra di noi che si sta fondendo.

Sebbene fossimo carichi di entusiasmo e con ancora molte ore di scalata davanti, siamo bloccati dalla parete. Cerchiamo alternative, ma non ne troviamo. Ci rassegniamo, montiamo la portaledge e aspettiamo il giorno seguente. A cena, lo sconforto si fa sentire. Parliamo poco, ma è chiaro che la possibilità di dover rinunciare è alta. Le previsioni meteo annunciano un peggioramento nei due giorni successivi.

Andiamo a dormire. Nonostante le basse aspettative, comprendiamo il privilegio di trovarci in un luogo simile. Siamo consapevoli che avremo dovuto dare tutto, a prescindere dall’esito.

Il mattino seguente ci svegliamo alle 6, smontiamo il campo e riprendiamo a scalare. Apro un tiro particolarmente tecnico: un misto tra arrampicata libera impegnativa e lunghe sequenze di artificiale aleatorio. Ci metto un po’, ma arrivo in sosta. Matteo parte dopo di me e, dando il massimo, supera velocemente le lunghezze successive. Poi tocca a Mirco, che ci conduce alla cengia del 22° tiro.

Ci guardiamo in faccia. Il meteo previsto per il giorno successivo è un’incognita, probabilmente proibitivo. Sono le 20:00, e capiamo che l’unica possibilità di arrivare in cima è continuare a scalare. Lasciamo il materiale da bivacco e proseguiamo al buio.

Riparto io sugli ultimi tiri. Non sono tecnicamente impegnativi, ma sono ricchi di ghiaccio. Mi faccio largo tra le fessure ghiacciate, con una picozza all’imbrago. Arrivo in cima alle 3 di notte. Poco dopo mi raggiungono Matteo e Mirco. È notte fonda, in una giornata di luna nuova. Attorno a noi solo buio, vento e freddo: scattiamo una foto e ci affrettiamo a scendere.

La sensazione è completamente diversa da quanto mi ero immaginato a casa, come se avessi realizzato a posteriori l’intensità del viaggio che ci ha portato lì sopra. Alle 5 del mattino, dopo 23 ore in parete, siamo finalmente di nuovo nei sacchi a pelo. Dormiamo un paio d’ore, poi iniziamo la discesa, recuperando tutto il materiale lasciato.

Ce l’abbiamo fatta. Abbiamo portato a termine un progetto incredibile, difficile, unico. La scalata più intensa e impegnativa della mia vita. Razionalmente sapevo che una rinuncia era molto più probabile, ma ogni giorno si è svolto in una tale armonia che mi ha fatto sentire sempre nel posto giusto. Come se scalare il Piergiorgio fosse, in quel momento, l’azione più naturale che potessi compiere. Non senza difficoltà, certo, ma con una determinazione che raramente ho provato nella mia vita. Dentro di me ho sempre custodito la speranza di raggiungere questo obiettivo.

Grazie a Matteo e Mirco per aver condiviso momenti indimenticabili. Quella settimana, tra fine febbraio e inizio marzo, difficilmente sarà replicabile. Tre giorni dopo la salita del Piergiorgio, mi trovo a Milano per la proclamazione della mia Laurea in Ingegneria Ambientale. Tutto si è incastrato alla perfezione, come se un’armonia inattesa avesse allineato tutti i miei obiettivi. Adesso, a distanza di diverse settimane, sto ancora elaborando questa incredibile avventura. Intanto, la mia mente è già proiettata verso nuovi sogni e nuove mete.

© photo: Frank Quaglino, Enrico Luoni, Club Alpino Italiano