7 agosto 2023, a cura di Camilla Pizzini
Se chiedeste ad Alessio di descriversi in tre parole, lui, con una faccia corrucciata, vi direbbe: polivalente, emotivo e sognatore. Odia le domande a bruciapelo, ma dopo un’intervista che ha molto di profondo, ci voleva un inizio conciso.
Corri da anni e ormai ti abbiamo visto in molte gare diverse, come nasce la tua passione per la corsa?
Ho iniziato a vedere la corsa come una cosa seria nel 2016, dopo alcuni anni passati a fare qualche garetta, ma senza mai metterci né metodo né dedizione. Quell’anno ero in Erasmus, in Norvegia, e mi ero messo in testa di voler correre la Trans d’Havet, una gara di 80 km che percorre tutte le piccole Dolomiti, una linea che ogni volta che esco di casa mi si palesa di fronte. Per me, finire quella gara, voleva dire essere arrivato, aver raggiunto quello che volevo chiedere al mio essere atleta. La finii, e fu un’esperienza talmente intensa e totalizzante che, quello che doveva essere il mio obiettivo ultimo, diventò il primo capitolo di una lunga storia.
E così nasce una grande passione e non solo...
Negli anni ho spaziato dal triathlon al ciclismo, passando per l’alpinismo e lo scialpinismo, non sono mai andato “all in” sulla corsa. Ho sempre apprezzato lo sport come una cosa che mi piacesse fare, piuttosto che come cosa da fare per perseguire un risultato. Per questo la mia crescita nel trail running non è stata così veloce e regolare, ma alla fine mi andava bene così: scoprivo cose di me e conoscevo persone che sarebbero poi diventate di riferimento nonché amici. Poi è arrivato il Covid: correre era l’attività con meno limitazioni e gioco forza fu quello di farlo di più, aumentando il carico di aspettative verso qualcosa che, fino a quel momento, era importante ma non così tanto. Il risultato diventò un fine, un modo per dimostrare il mio valore, a me stesso e agli altri.
Gareggiare come unico modo per compensare insicurezze, usare la corsa come ansiolitico, portò il rapporto sano che avevo con lo sport a diventare tossico; una tossicità che iniziò a contaminare anche altre parti sane della mia vita. Ogni tanto, qualche bel risultato, una gara fatta bene, faceva sembrare che tutto stesse andando benissimo, ma non era che uno specchio per le allodole e pian piano il mio corpo iniziava a darmi dei segnali. Ciò che non volevo ascoltare trovò un altro modo di farsi ascoltare; così la mia ansia da insicurezze arrivò sulla pancia e le gare iniziarono ad andare male, sempre, perché se la pancia non funziona, tutto il resto la segue a ruota.
Una famosissima citazione sostiene: “La forza si costruisce sui fallimenti, non sui propri successi.” È stato così anche per te?
Stare tanto male, fallire in continuazione, è stata la cosa migliore che mi potesse capitare. In un primo momento, da buon ingegnere, iniziai a studiare, leggere ed informarmi su tutto ciò che riguardava la parte alimentare. Cambiai il mio stile di vita, le tattiche alimentari in gara diventarono sempre più studiate, prendevo integratori di ogni sorta e passavo ore a cucinare cibo sano. Fu una gran svolta, che portò dei grossi benefici e che mi diede soprattutto una gran consapevolezza sul cibo - tuttora estremamente utile. Ma pensare di risolvere i problemi di pancia di natura psicosomatica, cucinando cibo biologico e prendendo pillole di fermenti e Omega 3, significava sì fare qualcosa, ma non quella giusta. Si rivelò efficace ma non sufficiente.
Andò come speravi o c’era qualcosa di più profondo? Quanto la parte psicologica influisce in un lavoro del genere?
Mi ritrovai al punto di partenza; eppure, stavo mangiando bene e prendevo ogni sorta di pillole. Ci sono due frasi che ricordo in questo periodo, entrambe uscite dalla bocca di una di quelle persone che avevo conosciuto in quella fase sana della mia vita da sportivo: “Ma quando la smetterai di pensare che il tuo mal di pancia derivi solo da quello che mangi, e magari inizi a pensare veramente a come stai?” - “Bene, ora che questa gara è andata bene, che ti senti così a posto e in equilibrio, è il momento giusto per andare in terapia”.
Era l’aprile del 2022 e avevo in qualche modo finito la mia prima 100 miglia: non so in che modo decisi che ci avrei provato, certo che sarei entrato, avrei fatto una seduta, ne sarei uscito convinto che fosse inutile e che i miei problemi ormai erano acqua passata - alla fine, l’ansia l’ho sempre avuta ed ero bravo a conviverci. Talmente bravo che, nei primi sei minuti della prima seduta, avevo già pianto due volte. Talmente abituato a vivere male che, alla fine, me ne ero quasi affezionato.
Tre mesi dopo, vincevo la Trans d’Havet, coronavo un sogno iniziato sei anni prima ma soprattutto il mio sport era ritornato un modo per divertirmi e conoscere me stesso e il risultato, una conseguenza. In mezzo tanti alti e altrettanti bassi, almeno, i problemi di pancia avevano un nome e cognome: ansia. E ascoltandola, andando a fondo, pian pianino le cose sembravano prendere una piega positiva.
Ma il tuo percorso di crescita come atleta non è finito qui, giusto?
Con ancora grande difficoltà decisi di affidarmi - e di fidarmi di nuovo - di un allenatore, che ho scelto perché competente nonché empatico, oltre che amico; la figura di cui avevo bisogno per togliermi un enorme sassolino dalla scarpa: ottenere la rivincita dopo tre ritiri alla Lavaredo Ultra trail. Ad ottobre dello scorso anno, gli ho detto: “Io voglio correre la LUT, finirla e finirla in 14h30’; sono nelle tue mani”. Così è iniziato un percorso di 9 mesi, fatto di pazienza, quella che mi era mancata, e di tante piccole tappe, ricordando quale fosse l’obiettivo. Sono stati mesi bellissimi, dove ho sentito che stavo costruendo qualcosa di solido, dove la mia ansia tornava ogni tanto per dirmi qualcosa, ma non rovinava più quelli che erano i miei sogni.
Io e Tommy, il mio coach, abbiamo costruito un gran progetto ma soprattutto lui mi ha fatto capire che potevo lasciare da parte le mie insicurezze tossiche. Io mi sono fidato, ho corso la LUT, l’ho corsa come volevo e l’ho chiusa in 14h 27’. Non c’è molto altro da aggiungere. Mi ha insegnato che, alla fine, quando corri una gara, l’unica cosa da non fare è cadere nel girone infernale dell’over-thinking, quello in cui cercavo in continuazione qualcosa che non andasse, senza mai concentrarmi sul sentire e percepire lo sforzo più adatto per finire la gara. Durante la LUT, non ho guardato nessuno intorno a me, non ho fatto paragoni con altri atleti, ad ogni problema cercavo una soluzione e sono sempre solo rimasto concentrato su me stesso. L’unica tattica che ha finalmente funzionato.
Qualche progetto per il futuro?
Per il futuro il progetto più grande è quello di continuare in questa direzione, perché tra qualche settimana c’è l’UTMB, un altro gran sassolino da togliermi. Di sicuro c’è che questo anno mi ha messo una gran vitalità e voglia di continuare a gareggiare cambiando le gare, perché, in giro per il mondo, è pieno di scenari incredibili da correre e vivere. L’anno prossimo è tutto da definire, mi piace sempre tenere a mente che vorrei tanto correre la Diagonal du fou nell’isola della Reunion, la Western States - lotteria permettendo - e perché no, la Leadville 100, giusto per prendere una fibbia da abbinare alla cintura finisher ottenuta quest’anno a Canyon 100 K.
© photo: Camilla Pizzini, Federico Bruttomesso